La vita in videoconferenza

Passerà queste emergenza. Non sappiamo quando, ma passerà. E nel frattempo tutto quello che prima facevamo dal vivo, in presenza, riusciamo ugualmente a portarlo avanti grazie alla tecnologia. Oggi facciamo lezione, riunioni, persino sedute di laurea (per chi lavora all’università); praticamente la nostra vita ora si svolte quasi tutta in videoconferenza, in una misura e con delle modalità che quasi non immaginavamo (o che forse non volevamo immaginare)

Non sappiamo quando tutto questo finirà e certamente non sarà nel giro di una notte che recupereremo la normalità, salvo chiedersi cos’è veramente la normalità, se questa di oggi o quella che abbiamo perduto. Oppure, quella che sapremo ricostruire sulla base delle nuove consapevolezze.

Nessun sistema di videoconferenza può sostituire l’esperienza di una lezione in classe, dal vivo. La didattica ha bisogno di quello, di occhi vigili, di domande, di gesti, di interruzioni, del gesso e dei pennarelli, della sfida che ciascuno di noi sente nel dover tenere l’attenzione di 10 o 100 studenti concentrati a prendere appunti (o a parlottare tra loro, quando non messaggiarsi). Ma una buona videoconferenza può rimpiazzare egregiamente tante pessime riunioni che facciamo di persona e che quasi non hanno senso.

A chi non è capitato di dover viaggiare al mattino (in auto, coi mezzi) per raggiungere una riunione con altre decine di persone che hanno fatto lo stesso percorso e poi trovarsi là, ognuno seminascosto dal proprio computer, intento a rispondere email scadute da settimane, o a rivedere un documento noioso, o a scrutare le pagine dei social, salvo intervenire stancamente sull’unico punto che ci interessa veramente. Per poi fare il percorso inverso e tornare a casa. Tempo, traffico, inquinamento, per due ore di riunione in cui fisicamente eravamo là e mentalmente in un altrove molto poco affollato, appagati dalla condivisa (e non per questo corretta) convinzione che anche quello sia lavoro. “Face work”, come lo chiamano al di là dell’oceano.

La prossima normalità lavorativa (e delle vite) che ricostruiremo dovrà essere diversa da questa di oggi e da quella che, volenti o non, ci lasciamo alle spalle. Alcune attività continueremo a farle in presenza, perché così deve essere; ma altre varrà la pena di continuare a gestirle in remoto. Ora facciamo il telelavoro, perché lavoriamo a distanza. Domani dovremo imparare a fare smart working, che sarà smart soltanto se capiremo che ciò che dà dignità al nostro lavoro non è (soltanto) la presenza fisica e il face work, ma soprattutto la qualità delle relazioni e l’orientamento ai risultati; non è il cartellino che qualcun altro può timbrare per noi, ma l’obiettivo raggiunto, prima, meglio. Sarà smart se ci farà conseguire di più con minore fatica, minore dispendio di tempo e consumo di energie, minore traffico in città e inquinamento; se ci metterà in condizione di sapere che si può fare quella riunione anche stando a casa, o in un parco, in un cowork, o da Starbucks (per dirne uno), come fanno già in altri paesi.

Speriamo che in quella normalità guadagneremo un po’ più di tempo per stare coi nostri figli, o i nostri genitori anziani, per stare all’aperto e fare attività fisica, o leggersi un libro e incontrare quell’amico che – mannaggia – avrei voluto telefonarti ma poi …