Ieri è rimbalzata sulle testate online e sui social la dichiarazione dell’amministratore delegato di DiaSorin, che informava tutti della volontà della società di non fare più investimenti in ricerca clinica in Italia finché non viene chiarito il quadro regolatorio del biotech. Si tratta dell’inevitabile e – aggiungo io – giustificata conseguenza di una recente decisione del TAR Lombardia che ha visto coinvolta la società. Purtroppo la questione è generalizzabile e non riguarda soltanto l’industria e la ricerca biotecnologica.
Un momento dopo sono piovuti i commenti di tutti – letteralmente tutti – sul problema del trasferimento tecnologico in Italia, sulle difficoltà dell’innovazione, sull’incertezza. Ma quelli che oggi si stracciano le vesti per questo epilogo molto serio sono gli stessi che per anni – e ancora oggi – non hanno capito dove sta il problema. Commentano, criticano, urlano, ma senza costrutto, e non si rendono conto che le loro doglianze sono più parte del problema che della soluzione. La situazione non cambierà mai se non si prende atto dell’errore.
Siamo entrati nel XXI secolo con le regole giuridiche del XX e la mentalità del XIX. Ma siamo convinti che i processi di innovazione e trasferimento tecnologico possano prendere vita qui, in Italia, come altrove, semplicemente ‘annunciando’ le cose, o proclamando a gran voce la volontà di farle o, peggio, celebrando improbabili successi, come fossimo la Silicon Valley cisalpina (che, evidentemente, non siamo).
Più o meno consapevolmente, più o meno deliberatamente, nello spiegare i rapporti tra innovazione tecnologica e sviluppo economico siamo vittime di un imperante determinismo tecnologico, di una convinzione – radicata nella mente dei nuovi tecnocrati monodimensionali – che la tecnologia di per sé, la sua forza, la sua pervasività, la sua dirompenza, siano sufficienti per produrre il cambiamento in meglio e la crescita economica.
Le vicende di questo Paese – dalle quali la annunciata decisione di DiaSorin evidentemente prende le mosse – raccontano una storia un po’ più complessa e sofisticata. Abbiamo voluto ostracizzare le regole, celebrando la loro farraginosità e imperscrutabilità, e abbiamo preferito far finta che non esistessero, piuttosto che metterci a capire dov’è che la macchina non funziona. E aggiustarla.
Non è la tecnologia l’unico antecedente dello sviluppo economico. Le regole giuridiche, che creano il mercato, sono parte delle cause del successo o dell’insuccesso di una nazione. Questa consapevolezza richiede ai giuristi un atteggiamento più responsabile nell’amministrarle e nell’interpretarle, per evitare che norma giuridica e società viaggino in direzioni ortogonali. Ma richiede ai depositari della conoscenza tecnologica l’umiltà di capire che nemmeno loro si muovono nel vuoto pneumatico. Intorno al tutto che ci comprende c’è una cosa che si chiama ‘società’, i cui algoritmi di funzionamento non rispondono a una regola deterministica. Ci si può illudere di dominarli, con i paradigmi delle scienze esatte, ma non li si può eludere.
Dietro ogni prodotto c’è una tecnologia. Ma dietro i mercati della tecnologia ci sono regole, che possono funzionare o essere disfunzionali. Prima lo capiamo, meglio sarà per tutti.