IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO UNIVERSITARIO

Il Dottorato di Ricerca in Principi Giuridici ed Istituzioni fra Mercati Globali e Diritti Fondamentali del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari organizza un simposio dal titolo “Il Trasferimento Tecnologico Universitario tra Diritto della Proprietà Intellettuale e Diritto della Concorrenza” il prossimo 25 giugno 2021.

La partecipazione è gratuita ed è possibile seguire le sessioni via Teams nel link che si trova nella locandina scaricabile qui.

Webinar Netval sulla valutazione dei brevetti

Se siete interessati a capire come funziona la valutazione dei brevetti, soprattutto nei contesti di ricerca pubblica, e su quali regole contabili seguire per la raffigurazione del capitale intellettuale, Netval ha organizzato un webinar per mercoledì 22 aprile.

Il seminario sarà ospitato su piattaforma Teams dello IUAV di Venezia.

Per saperne di più e per le iscrizioni, fate riferimento al sito Netval

Anche @UNIBS è parte del Pan-European Seal Programme (PES)

L’Università degli Studi di Brescia è parte del Pan-European Seal Programme (PES).
Tra poco partirà la selezione degli studenti che potranno accedere al prestigioso programma di formazione. Un’opportunità unica nel suo genere.

Gli organizzatori EPO e EUIPO hanno voluto condividere questi video, che riassumono questa esperienza offerta ai ragazzi.

Il primo video è disponibile qui

Il secondo video è disponibile qui

Più informazioni sul Programma sono disponibili qui.

Ambiente e resilienza ai tempi del #coronavirus (a proposito di una decisione recente della Corte di giustizia)

La resilienza è una proprietà di alcuni materiali e, per traslato, di individui ed istituzioni. Ma non è una caratteristica buona. E non è cattiva. È semplicemente la capacità di riassumere la propria forma dopo un evento che agisce sullo stato iniziale.

Oggi si parla di imprese resilienti e di economia resiliente e l’implicito di queste formule è che tornare al prima della deformazione significhi tornare al meglio. Nei documenti politici dell’Unione europea dopo la crisi del 2008 si è iniziato a parlare di resilienza come di una virtù della società contemporanea, anche se, a pensarci qualche istante di più, per certi aspetti la resilienza è anche una forma di resistenza al cambiamento e quindi forse non del tutto positiva.

Oggi il concetto torna all’attenzione di tutti, perché il mondo dovrebbe essere resiliente rispetto al colpo che gli ha inferto la pandemia da covid-19.

Eppure, sarà capitato a molti di guardare il cielo in queste settimane passate e rendersi conto che l’aria è più pulita e il cielo, soprattutto in certe aree del Paese, è insolitamente più blu. Mesi senza mezzi pesanti, traffico cittadino, pochi aerei e fabbriche spente hanno avuto un effetto disastroso sulle nostre economie, ma positivo sull’ambiente e sull’aria. Da questo punto di vista, stiamo meglio che in passato e se ne ha un segno evidente confrontando i dati disponibili sulle varie piattaforme di monitoraggio, come quella dell’Air Quality Index (https://aqicn.org/map/italy/).

Succede oggi repentinamente quello che accadde – in maniera più lenta e graduale – con la passata crisi economica del 2008: l’improvviso rallentamento delle attività antropiche produce una riduzione dei gas serra. Se l’economia sarà resiliente vuol dire che tornerà tutto come prima; avremo il nostro benessere economico, ma l’ambiente tornerà violentemente sotto pressione. Il che ovviamente rivela la natura “diabolica” (cioè, letteralmente, “spezzata”) di una certa concezione contemporanea del benessere: vogliamo una casa bella e ordinata ma ci comportiamo precisamente nel modo che la farà risultare sporca e caotica, quando però ad abitarla non saremo più noi ma i nostri figli.

I dati che provengono dalla Commissione europea dicono che ogni anno ci sono più di 400.000 persone la cui morte prematura è da ricollegarsi alla cattiva qualità dell’aria. E forse sono stime conservative, se si tiene conto anche dei soggetti che soffrono di patologie respiratorie e cardiovascolari aggravate dal rischio ambientale. Nel resto mondo la situazione non è differente. È brutto a dirsi, ma è come se ogni anno ci fosse una grande epidemia covid, solo più lenta, più silenziosa, più letale, e purtroppo meno selettiva, posto che aggredisce anche fasce molto giovani – e quindi molto esposte – della popolazione, come i neonati e i bambini.

Sarebbe una decisa sconfitta per l’umanità se ci rassegnassimo a pensare che l’aria pulita – come emblema di un ambiente sano – sia possibile soltanto al costo di una crisi finanziaria, epidemiologica o chissà cosa altro ancora di funesto e tremendo.

Se resilienza dovesse significare che, nel bene e nel male, tornerà tutto come prima, allora dovremmo fermarci tutti un momento e capire che non dovremmo cercare semplicemente la resilienza; al contrario, dovremmo invocare il cambiamento e, in un certo senso, essere noi il cambiamento. Forse dobbiamo rileggere le parole di papa Francesco, quando ci invita a puntare su un altro stile di vita e ad una educazione che riconcili l’umanità e l’ambiente. Certo, le crisi ambientali hanno cause profonde e origini complesse, ma questo non esime nessuno di noi dal fare la sua parte, non importa quanto piccola.

Il tema dell’ambiente e della sua qualità è un tema anche profondamente etico, spirituale e religioso e ce ne rendiamo conto perché, fin tanto che è rimasto meramente tecnologico ed economico non è cambiato nulla. Dobbiamo veramente soltanto attendere la prossima crisi per tornare ad avere aria pulita o ‘sperare’ che l’innovazione tecnologica (come se le varie opzioni di traiettoria fossero scevre da considerazioni di costo e quindi per definizione efficiente) portino a un mondo migliore su un pianeta che però continua ad avere risorse limitate a fronte di una popolazione crescente? Questa confidenza nella visione soltanto tecnologica rasenta il fatalismo; non è quello che vogliamo.

L’Italia ha riportato una recente condanna di fronte alla Corte di giustizia per mancato rispetto delle direttive sulla qualità dell’aria. Ma è passata sotto silenzio e le stesse istituzioni eurounitarie si sono accontentate, almeno per il momento, di farci una tiratina di orecchie. Però chiaramente bisogna cambiare il verso e la pandemia non deve essere usata come un anestetico per dimenticare gli altri problemi che affliggono l’umanità.

Il “pensiero delle cattedrali”; a proposito di uno scritto di Telmo Pievani

Homo sapiens – scrive Telmo Pievani sul Corriere della Sera – ha però un vantaggio sui virus: l’immaginazione. Loro sono macchine biologiche che fanno copie di sé stesse. Noi possiamo prevedere che di questo passo il riscaldamento climatico, la distruzione della biodiversità e le pandemie ci presenteranno un conto sempre più salato. Per uscirne servono decisori politici, nazionali e internazionali, che abbiano il “pensiero delle cattedrali”, il pensiero cioè dei costruttori medioevali che gettavano le fondamenta di una cattedrale ben sapendo che solo i loro figli o nipoti l’avrebbero vista finita. La lotta contro il degrado ambientale è la nostra cattedrale

Credo che chiunque faccia questo mestiere – che ci chiede di stare davanti ai ragazzi e guardarli negli occhi (non importa se dal vivo o attraverso il monitor di un dispositivo) – deve ricordare che la nostra missione è trasferire una visione, delle cose di lungo periodo, delle cattedrali, dei progetti che attraversano le generazioni e vanno oltre l’effimero di un mondo solo digitale. Bisogna rileggere la riflessione di Telmo Pievani tutti i giorni.

Seminario @Netval su #MTA e #NDA

15:00 – Saluti del Rettore, Università di Urbino, Vilberto Stocchi

15:15 – Saluti del Prorettore alla Terza Missione, Università di Urbino, Fabio Musso

15:30 – Saluti del Presidente di Netval, Giuseppe Conti, Università di Bologna

15:45 – Alessandra Baccigotti, Università di Bologna e ASTP

17:00 – Q&A e conclusioni

Modera: Vanessa Ravagni, Università di Trento e Netval

Contro il determinismo nel trasferimento tecnologico

Ieri è rimbalzata sulle testate online e sui social la dichiarazione dell’amministratore delegato di DiaSorin, che informava tutti della volontà della società di non fare più investimenti in ricerca clinica in Italia finché non viene chiarito il quadro regolatorio del biotech. Si tratta dell’inevitabile e – aggiungo io – giustificata conseguenza di una recente decisione del TAR Lombardia che ha visto coinvolta la società. Purtroppo la questione è generalizzabile e non riguarda soltanto l’industria e la ricerca biotecnologica.

Un momento dopo sono piovuti i commenti di tutti – letteralmente tutti – sul problema del trasferimento tecnologico in Italia, sulle difficoltà dell’innovazione, sull’incertezza. Ma quelli che oggi si stracciano le vesti per questo epilogo molto serio sono gli stessi che per anni – e ancora oggi – non hanno capito dove sta il problema. Commentano, criticano, urlano, ma senza costrutto, e non si rendono conto che le loro doglianze sono più parte del problema che della soluzione. La situazione non cambierà mai se non si prende atto dell’errore.

Siamo entrati nel XXI secolo con le regole giuridiche del XX e la mentalità del XIX. Ma siamo convinti che i processi di innovazione e trasferimento tecnologico possano prendere vita qui, in Italia, come altrove, semplicemente ‘annunciando’ le cose, o proclamando a gran voce la volontà di farle o, peggio, celebrando improbabili successi, come fossimo la Silicon Valley cisalpina (che, evidentemente, non siamo).

Più o meno consapevolmente, più o meno deliberatamente, nello spiegare i rapporti tra innovazione tecnologica e sviluppo economico siamo vittime di un imperante determinismo tecnologico, di una convinzione – radicata nella mente dei nuovi tecnocrati monodimensionali – che la tecnologia di per sé, la sua forza, la sua pervasività, la sua dirompenza, siano sufficienti per produrre il cambiamento in meglio e la crescita economica.

Le vicende di questo Paese – dalle quali la annunciata decisione di DiaSorin evidentemente prende le mosse – raccontano una storia un po’ più complessa e sofisticata. Abbiamo voluto ostracizzare le regole, celebrando la loro farraginosità e imperscrutabilità, e abbiamo preferito far finta che non esistessero, piuttosto che metterci a capire dov’è che la macchina non funziona. E aggiustarla.

Non è la tecnologia l’unico antecedente dello sviluppo economico. Le regole giuridiche, che creano il mercato, sono parte delle cause del successo o dell’insuccesso di una nazione. Questa consapevolezza richiede ai giuristi un atteggiamento più responsabile nell’amministrarle e nell’interpretarle, per evitare che norma giuridica e società viaggino in direzioni ortogonali. Ma richiede ai depositari della conoscenza tecnologica l’umiltà di capire che nemmeno loro si muovono nel vuoto pneumatico. Intorno al tutto che ci comprende c’è una cosa che si chiama ‘società’, i cui algoritmi di funzionamento non rispondono a una regola deterministica. Ci si può illudere di dominarli, con i paradigmi delle scienze esatte, ma non li si può eludere.

Dietro ogni prodotto c’è una tecnologia. Ma dietro i mercati della tecnologia ci sono regole, che possono funzionare o essere disfunzionali. Prima lo capiamo, meglio sarà per tutti.